La proposta di Quota 41 del governo Meloni sta sollevando molti dubbi: troppe cose non convincono. Ecco che cosa accadrà!
Con la manovra 2025 in arrivo, il dibattito sulle pensioni torna in primo piano, con la Lega che spinge fortemente su Quota 41. Questa proposta consentirebbe di andare in pensione dopo 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età, ma con un ricalcolo contributivo che ridurrebbe l’assegno. Michele Raitano, economista e docente di Politica economica all’Università Sapienza di Roma, ha spiegato perché questa misura non risolverebbe i veri problemi del sistema pensionistico.
Secondo Raitano, una riforma di questo tipo, pur se interessante per chi ha avuto una carriera stabile e lunga, lascia fuori chi ha vissuto carriere frammentate o precarie, soprattutto giovani e donne. Il sistema contributivo, infatti, calcola l’assegno pensionistico in base ai contributi versati nel corso della vita lavorativa, penalizzando chi ha avuto buchi contributivi o periodi di lavoro poco retribuiti.
Le proposte basate su “quote” continuano a non affrontare il problema centrale del sistema: la difficoltà crescente per molti lavoratori di accumulare abbastanza contributi per una pensione dignitosa. Quota 41, se applicata con un ricalcolo contributivo, finirebbe per ridurre sensibilmente l’importo dell’assegno pensionistico di chi ha iniziato a lavorare prima del 1996, specialmente chi negli ultimi anni ha versato contributi più elevati.
Un altro punto critico è che queste misure di pensionamento anticipato rischiano di costare molto alle casse dello Stato senza dare reali benefici. La Legge Fornero, ad esempio, permette già di andare in pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne), senza ricalcolo. Quota 41 anticiperebbe l’uscita dal lavoro solo di pochi mesi, ma con un assegno più basso.
Raitano sottolinea che l’approccio del governo dovrebbe essere completamente ripensato. Piuttosto che continuare a giocare con l’età pensionabile o proporre formule complicate come Quota 41, sarebbe utile introdurre misure più inclusive, come le pensioni di garanzia. Queste ultime offrirebbero un livello minimo di assegno per chi ha avuto carriere difficili o discontinue, premiando comunque chi ha lavorato più a lungo.
Riguardo i giovani, che faticano ad accumulare contributi a causa di contratti precari e a termine, la soluzione potrebbe essere una riforma che preveda un sostegno più concreto, soprattutto durante i periodi di disoccupazione involontaria. Infatti, la proposta di destinare parte del TFR ai fondi pensione privati non risolverebbe il problema delle pensioni basse, poiché il TFR è già una risorsa dei lavoratori e non rappresenta un vero aumento delle entrate future.
In definitiva, il vero nodo del problema pensionistico italiano è la mancanza di un intervento strutturale che guardi alle nuove sfide del mondo del lavoro. Piuttosto che proporre riforme che avvantaggiano solo una parte della popolazione, sarebbe necessario pensare a misure che includano tutti, soprattutto i più deboli.
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